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In evidenza“Stabat Mater: Maria Paiato e il racconto di un’umanità invisibile”

“Stabat Mater: Maria Paiato e il racconto di un’umanità invisibile”



L’Otto febbraio Officina Pasolini ha ospitato la prova aperta dello spettacolo Stabat Mater, scritto da Antonio Tarantino e diretto da Giuseppe Marini. Protagonista unica dello spettacolo è stata Maria Paiato, che ha dato forma ad un racconto incentrato sui temi della maternità e del dolore, ma anche della povertà e del degrado. In scena la figura epica della Madre del Cristo attualizzata al tempo presente, ma anche i personaggi che la circondano, la deriva di un’umanità invisibile e dimenticata che non può fare altre che urlare la propria verità. A parlarci di questo spettacolo è stata la stessa attrice.

Stabat Mater è un oratorio per voce sola. Come ti sei avvicinata a questo testo? Cosa ti ha attratto maggiormente? E quali sono state le difficoltà più grandi?

È un percorso curioso, perché in realtà questo personaggio lo avevo già affrontato nel 2009 in Quattro atti profani – per la regia di Walter Malosti – all’interno di uno spettacolo concepito però molto diversamente. Walter aveva infatti riunito tutti e quattro gli atti profani, e io portavo in scena appunto lo Stabat Mater, ma era una versione molto tagliata e anche molto diversa. Comunque quell’esperienza mi piacque talmente tanto che mi era rimasta la voglia di lavorare ancora sul personaggio che avevo interpretato, desideravo approfondirlo, affrontarlo in pieno. Così quando due anni fa Giuseppe Marini mi ha telefonato, proponendomi di portarlo nuovamente in scena, non ho avuto dubbi! Certo è stato un lavoro impegnativo, perché quello della Stabat Mater è un monologo che richiede molto sforzo fisico, una preparazione atletica particolare: si tratta di interpretare un personaggio a cui devi aderire completamente, sia da un punto di vista vocale che fisico, muscolare. In questa occasione mi sono resa conto che in questo senso il tempo è passato, non posso negarlo, perché quando presi parte allo spettacolo di Malosti avevo veramente un’energia di un altro tipo… però sono talmente tante le soddisfazioni, le possibilità infinite, espressive che offre questo personaggio che vale davvero la pena di affrontare tutte queste difficoltà. Poi lavorare con Giuseppe è stato molto stimolante, mi ha condotto in territori che potevo solo immaginare, costruendo un percorso molto preciso all’interno di una slavina di parole, quelle del testo, che ti sembra corra irrefrenabile. Invece poi non è così, e l’occhio di Giuseppe mi ha aiutato a trovare un andamento fatto anche di pause, laddove la scrittura non prevede niente, perché non c’è punteggiatura, non c’è nulla…

Antonio Tarantino ha dato a questo personaggio una forte connotazione popolare, mantenendo, rispetto a questi e a quanto avviene intorno, una visione etica lucida e salda. Quanto ti ritrovi in Maria? E quanto ti sembra sia rimasto della preghiera originaria?

È una donna che ha sofferto, che ha pagato un prezzo altissimo per i suoi errori, e che costringe quindi a lavorare sul tema del dolore, ad entrare in zone molto intime. Ma è anche una figura che ha un approccio con gli altri insolente, divertente e in questo vedo dei tratti comuni. Della preghiera originale invece, secondo me rimane lo sguardo, si sente che c’è… io spesso durante le prove mi sono immaginata il volto di Antonio Tarantino sopra queste pagine, che con sguardo benevolo e compassionevole abbraccia questi personaggi. Sono tutti, in fondo, innocenti, anche il più laido; sono gli ultimi degli ultimi, perché sono i dimenticati, gli emarginati, i rifiutati, quelli che che non hanno nessuna possibilità di cambiare la propria vita, proprio quell’umanità a cui Cristo si è rivolto.

Uno spettacolo che ti ha portato grandi soddisfazioni e che è rimasto impresso a chi ha avuto la fortuna di vederlo è La Maria Zanella. Credi di aver portato qualcosa di quel personaggio in questa madre addolorata?

Sicuramente ci sono dei tratti simili, soprattutto perché entrambe appartengono al ceto basso, al ceto più popolare e più disagiato. Poi hanno in comune la stessa qualità materica, la concretezza; si chiamano tutte e due Maria… Maria Zanella però era un’anima piccola, una bambina rimasta dentro un corpo invecchiato, dentro il suo cervello continuava a produrre pensieri e dinamiche infantili, di grande stupore e anche di grande purezza. Anche Maria Croce ha questa cosa, dentro la sua anima è pulita, candida, ma a differenza di Maria Zanella è una donna smagata, che ne ha passate tante: l’aborto, la prostituzione, un uomo che l’ha sfruttata, che l’ha costretta a diventare una ragazza madre, è una donna in costante lotta con le istituzioni che non l’ascoltano, e in questo è molto diversa dalla Zannella.

In questo periodo storico, in cui dopo tante battaglie femministe i diritti delle donne sembrano nuovamente in pericolo, che ruolo può avere questo spettacolo?

Se ci mettessimo seriamente a parlare di donne, non si finirebbe più di raccontare. Purtroppo il problema è lo stesso da secoli, anche se sono state fatte, è vero, molte battaglie; tante sono state vinte e non sono state vane, ma attualmente, in questo preciso momento storico, in cui in generale non c’è rispetto per l’essere umano, ti rendi conto di quanto lavoro ci sia ancora da fare. Una donna come Maria probabilmente estremizza, porta a galla in modo enorme, esasperato tutte le problematiche, le tematiche che appartengono ancora alle donne: lo sfruttamento, l’abbandono, il lavoro, la maternità… in questo spettacolo si vede una donna che è una combattente, ma una combattente le cui battaglie non finiscono mai, che vive in un’eterna fatica, sola e stanca. E sì, sicuramente quello del ruolo della donna in una società ancora fortemente maschilista è un piano di lettura molto interessante.

Il tuo curriculum teatrale è particolarmente ricco, ma non mancano le incursioni nel mondo del cinema e della tv. Al netto dell’ovvia differenza tra i linguaggi, qual è il tuo rapporto con questi mezzi? Esiste ancora lo stupore – da te spesso raccontato – della ragazza di provincia che si ritrova in mezzo ai propri miti, e soprattutto immersa nel proprio sogno?

Sì, esiste ancora, anche per il teatro pur essendo il luogo che frequento di più, perché quando incontro le personalità che hanno fatto la storia del teatro non mi sembra vero di essere parte di questo mondo. Lo scorso anno ad esempio ho provato questa sensazione quando ho incontrato Glauco Mauri. Lui è un vero lavoratore del teatro, lo stimo molto sia come attore sia come persona. Comunque, come dicevo, il teatro è casa mia, mentre il cinema no, con quello ho meno a che fare e per questa ragione sento che c’è sempre qualcosa che devo controllare, c’è una sorta di timore reverenziale, la paura di non essere all’altezza… insomma è un mezzo che sento molto meno gestibile, e questo non solo perché frequento più il teatro del cinema ma perché è diverso il tipo di feedback che ho con il pubblico. In teatro il riscontro è immediato, anche se non fai necessariamente un monologo o se non sei la protagonista, perché ogni sera le persone che sono davanti a te a guardarti si fanno sentire; non solo con gli applausi, ma anche nel silenzio ti fanno capire come stai andando, se piaci oppure no. Invece nel cinema ho sempre la sensazione di un respiro mozzato, perché sei davanti ad una macchina da presa che non ti restituisce nulla e intorno a te ci sono tante persone che lavorano, ma che non ti aiutano certo a concentrarti. L’attore cinematografico è uno dei tanti elementi della macchina che deve funzionare, un tassello, importante, ma pur sempre un tassello, come la luce, il suono, la scena. E poi, come dicevo, è difficile trovare la concentrazione… chi non conosce questo mestiere, spesso pensa che fare cinema sia molto più facile perché “una scena la puoi pure girare cento volte”, invece è proprio quello il problema! Perché girando più volte una scena si perde veridicità. Poi magari, quando finalmente si riesce a girare qualcosa di soddisfacente, bisogna rigirare perché in quel momento passava un aeroplano! E ti mangeresti le mani perché non sai se ti riuscirà più così bene…

Infatti Anna Magnani raccontava che al cinema, per lei, le scene erano tutte: “buona la prima”, perché dalla seconda in poi non poteva che peggiorare…

Purtroppo è proprio così… il cinema è difficile per la concentrazione enorme che richiede, mentre il teatro è faticoso da un punto di vista fisico. In scena l’attore è quasi sempre sottoposto ad uno sforzo atletico notevole, sforzo che però comincia, si sviluppa e finisce seguendo un percorso unico, mentre il cinema è frammentato, caotico; comunque la differenza la fa sempre il regista con cui lavori, anche nel cinema…

E a te al cinema con chi piacerebbe lavorare?

Sicuramente Sorrentino, o Garrone. Mi piacciono molto i loro film, e il tipo di mondo che sono in grado di evocare. Recentemente, ho avuto anche modo di apprezzare un film di Stefano Mordini, che si intitola Pericle il nero. Si tratta di una storia moto cruda, dalle atmosfere inquietanti… sono rimasta davvero molto colpita. Ecco, per questo tipo di cinema sarei felice di spendere tensione e fatica, accettando le inevitabili ‘frustrazioni da set’ di cui parlavo prima.

Intervista a cura di Caterina Taricano

Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini è un Laboratorio di Alta Formazione artistica del teatro, della canzone e del multimediale della Regione Lazio attivato a partire dal 2014 attraverso finanziamenti europei e gestito da DiSCo, Ente regionale per il diritto allo studio e la promozione alla conoscenza.

 

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