Sezione #Canzone | Levante e i suoi “Manuali distruzione”
Giovedì 19 Maggio c’è stato il secondo appuntamento di Officina Pasolini OFF #Canzone, un ciclo di incontri con alcuni dei migliori esponenti della musica italiana. Il salotto OFF di Officina Pasolini ha avuto il piacere di ospitare la cantautrice Levante. Il suo mondo musicale ed estetico l’hanno presto consacrata a icona pop, celebrata sui social ma anche acclamata nelle sue esibizioni. E il plauso arriva sicuramente dalla sincerità con la quale Levante affronta il suo lavoro e dal suo personale modo di vivere la musica.
L’incontro, che ha avuto luogo ai Pini Spettinati di Roma, è stato presentato da Tiziana Tosca Donati, coordinatrice della sezione canzone di Officina Pasolini dal giornalista e musicologo Felice Liperi. Durante la serata si sono esibiti anche 5 studenti della sezione canzone e Olga Bellardita, cantautrice che si è diplomata lo scorso anno ad Officina Pasolini.
“Che vita di merda” cantava tre anni fa nel suo primo singolo Alfonso: “ho le scarpe da sera, ma non sono in vena”. Da allora Levante (al secolo Claudia Lagona), la cantautrice siciliana, torinese d’adozione, di strada ne ha fatta e parecchia, ma, scarpe da sera o meno, sempre “guardandosi i piedi” perché, come ci tiene a sottolineare, “non si finisce mai di camminare”. Eppure dopo il suo primo disco, Manuale distruzione, realizzato “facendo cappuccini al bar”, a conferma del suo talento e della sua grande capacità comunicativa è arrivato anche il suo secondo album, Abbi cura di te, che le ha spalancato le porte dell’olimpo del pop.
Ma, come si dice, non è stato tutto rose e fiori, anzi, “le prime soddisfazioni sono arrivate dopo tante cadute e tanti momenti di scoraggiamento”. La storia di Levante, di quella sua autenticità conquistata e conservata con grande fatica, si intuisce, a piccoli pezzi, nelle sue canzoni così come ascoltandola parlare. Sul palco di Officina Pasolini Off (secondo appuntamento del ciclo di incontri dedicati alla musica italiana), la cantautrice, intervistata da Tosca e Felice Liperi, ha raccontato i sui progetti musicali proprio partendo dalla sua vita, dalla sua infanzia e da quel primo concorso al “Festival degli Sconosciuti” di Ariccia, dove venne esclusa da Teddy Reno in persona, che le disse: “sei brava, ma questa musica non ci interessa”.
La tua carriera dunque è cominciata con un no…
Esatto. Quello al “Festival degli sconosciuti” è stato il mio primo provino. Ero partita dalla Sicilia con mia madre e mia sorella. Ricordo che avevo le mani distrutte, perché suonavo da poco e ancora non mi ero abituata. Per sentire meno il dolore all’epoca mi fasciavo le dita con lo scotch! Ero agitata, ma il provino andò male semplicemente perché la musica che facevo io a loro non interessava. Teddy Reno mi fece i complimenti, ma non mi selezionò. In questo modo si sono conclusi quasi tutti i provini della mia vita: tante pacche sulle spalle, ma poi, nessuno che mi prendesse sul serio.
E poi, cos’è successo?
È successo che la prima vera carezza dalla musica l’ho ricevuta a 26 anni, quando è uscito Manuale distruzione; tardissimo rispetto a quando ho iniziato. Ma è anche vero che io stessa ho perso molto tempo. Per arrivare a quel disco – che ha rappresentato un punto di partenza importante per la mia carriera ma anche un punto di arrivo fondamentale per un mio percorso personale- ho fatto moltissima fatica e talvolta ho disperso le energie. Pur di incidere qualcosa infatti a diciannove anni ho firmato un contratto con dei produttori poco seri, che mi hanno rubato tre anni di lavoro. Ma hanno potuto farlo perché in quel periodo ero attenta solo a ciò che volevano gli altri e non a ciò che desideravo io.
Questa esperienza mi ha fatto andare profondamente in crisi. Poi ho deciso di ricominciare. Sono partita per l’Inghilterra in cerca di altro, di qualcosa di nuovo. Come meta avevo scelto Leeds, ma anche lì è stata una delusione. Non riuscivo a trovare una mia collocazione. Non mi è mai importato di diventare famosa, ma non volevo arrendermi all’idea di non poter vivere facendo musica.
Tornata in Italia, nella mia adorata Torino, dopo il mio periodo inglese non sapevo davvero che fare; più volte ho pensato seriamente di smettere, poi quasi per caso sono venuta a sapere che Davide Pavanello, il cantante dei Linea 77, aveva un progetto molto interessante che coinvolgeva tanti artisti. Così ho voluto conoscerlo per saperne di più. Quello con Davide è stato un incontro che mi ha cambiato la vita. È stato lui a farmi capire che in certe canzoni perdevo forza perché non ero me stessa: di alcune disse che erano proprio da buttare perché non mi appartenevano, altre invece lo conquistarono completamente, come La scatola blu, un brano in cui, effettivamente, c’è molto di me.
Si trattava insomma di superare un blocco…
Sì, non mi sono accettata per anni, alle volte ho remato contro me stessa, ma poi quando
sono riuscita a superare questo problema, a convincermi del fatto che non dovevo seguire dei modelli fasulli, è stato tutto in discesa. Proprio in quel periodo – evidentemente era il momento giusto – ho conosciuto Alberto Bianco, sono letteralmente impazzita per i suoi dischi e ho deciso che il mio avrebbe dovuto produrlo lui. Così è nato Manuale distruzione, l’album grazie al quale ho sentito che qualcosa era finalmente cambiato.
Manuale distruzione ha scalato le classifiche anche grazie ad Alfonso, il singolo che ha anticipato l’album
Sì, Alfonso è una canzone a cui devo molto. È la cronaca di una di quelle feste in cui nessuno si diverte e tutti non vedono l’ora di tornarsene a casa. Niente funziona, dalle scarpe scomode al al festeggiato, che nemmeno si conosce! Credo di aver interpretato il pensiero di molti. Chi di noi non ha mai sognato di urlare a squarciagola cosa pensa della vita in certi momenti?
E tu cosa ne pensi?
Fortunatamente non la penso sempre come in Alfonso. Io sono un’entusiasta, una che non si arrende. Anche se la vita sulle cose importanti mi ha messo alla prova da subito: mio padre è morto che ero una ragazzina ed è un trauma, questo, sul quale ho dovuto lavorare parecchio.
La musica ti ha aiutata?
È stata fondamentale. Ho cominciato a suonare e a scrivere da molto piccola. Da sempre la musica ha rappresentato un porto sicuro per me, un rifugio. E anche in quel caso è stato così. In quel brutto momento, anzi, ho capito quanto fosse importante per me. Tutte le canzoni da quel momento in poi le ho scritte pensando a mio padre.
In Finchè morte non ci separi invece, canzone che fa parte del tuo secondo album, parli di tua madre, e addirittura canti insieme a lei
Sì, Jodorowsky lo definirebbe un atto psicomagico. Quando ho scritto questo brano che racconta di una ragazzina che fugge di casa per sposare il suo fidanzatino mi sono resa conto che stavo scrivendo la storia dei miei genitori e soprattutto che stavo raccontando questa vicenda dal punto di vista di mia madre. Ho pensato che finalmente stavo scrivendo per lei e non per mio papà. È facile scrivere per chi non c’è più, per chi in qualche modo rimane idealizzato, più dura è parlare delle persone che restano.
Mia madre è per me un grande esempio di vita. L’idea di farla cantare mi è venuta quasi subito
e lei che è la persona più estroversa che conosco ha accettato senza fare la minima resistenza pur non avendo mai cantato in pubblico! Cantare con lei e girare il video di questa canzone è stata una delle cose più emozionanti che abbia mai fatto.
Come scrivi i tuoi pezzi?
Li scrivo di getto. L’ho sempre fatto. E soprattutto non rileggo mai per correggere. Scrivo e metto il punto, e questo perché la canzone mi si compone in testa prima ancora di pensarci. Quando prendo la chitarra in mano è per fare la stesura definitiva. Scrivere, correggere, cancellare sarebbe come rielaborare una pagina di diario. I diari invece sono belli proprio perché hanno la freschezza dell’immediatezza.
Hai già parlato di chi è stato fondamentale per la tua la tua carriera, quali sono stati invece gli artisti della tua formazione?
Da piccola ero innamorata delle donne. Carmen Consoli, che come me è di Catania, sicuramente ha avuto una grandissima influenza su di me. Poi ci sono state Janis Joplin, Alanis Morissette, Tori Amos, Mina e crescendo il vecchio rock indipendente, Cristina Donà, i Marlene Kuntz, gli Afterhours. Ho fatto una selezione ristretta.
A ventitré anni invece ho scoperto il sottobosco musicale torinese: Alberto Bianco, che come dicevo mi ha permesso di realizzare il mio primo disco, Davide Pavanello, Daniele Celona e persino Niccolò Fabi, che pur essendo romano con Torino ha un legame profondo.
In questi anni hai preso parte al concerto del primo maggio a Roma e poi a quello di Taranto. Come coniughi la tua parte più “impegnata” con il tuo spirito pop?
Contengo entrambe le parti. Una cosa non esclude l’altra. Anche perché compito della musica è quello di veicolare un messaggio sia esso intimo o collettivo. Sono stata molto felice di partecipare alla manifestazione di Taranto perché ho avuto davvero l’impressione di fare qualcosa di utile con la mia musica. A Taranto la situazione è grave per via dell’Ilva. È un problema che ha spaccato la città in due parti: c’è chi vuole vivere e spinge per la chiusura dello stabilimento e chi invece prima che alla salute pensa ad arrivare a fine mese e combatte per continuare a mantenerla in piedi. Nonostante le resistenze è una città che ha dato un grande esempio di rivolta.
E se ti proponessero di fare il giudice in un reality?
Ci dovrei riflettere. Non demonizzo questo tipo di percorsi, anche se io ho scelto di fare un’altra strada. Non siamo tutti uguali: ci sono persone che hanno bisogno di essere indirizzate, soprattutto all’inizio, e altre che se non vanno a briglia sciolta non funzionano. Io ad esempio, come artista, non avrei mai tollerato di non potermi esprimere liberamente. Da giudice non so come mi sentirei, la tv non mi spaventa ma non abbastanza esperienza.
Di cosa parlerà il tuo nuovo disco?
Non lo dico neanche morta. Posso solo rivelare che come gli altri sarà una sorta di “concept album” e che dall’area torinese mi sposto a quella milanese…
Intervista a cura di Caterina Taricano