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In evidenzaSezione #Canzone | La musica di Gegè Telesforo, racconto di una lunga storia d’amore

Sezione #Canzone | La musica di Gegè Telesforo, racconto di una lunga storia d’amore



Polistrumentista, vocalista, compositore, conduttore e autore di programmi radiofonici e televisivi, quando si parla di musica Gegè Telesforo non lo si trova mai impreparato. Nella sua lunga e ricca carriera ha dimostrato di essere un artista versatile, uno dei più originali della scena italiana degli ultimi trent’anni. Cultore della black music ma con il funky nel sangue, nel nostro paese è considerato uno dei massimi professionisti di “scat”, l’arte dell’improvvisazione vocale praticata dai più famosi jazzisti di tutti i tempi. Nonostante le illustri collaborazioni – ha duettato con i musicisti più interessanti del panorama internazionale, da Jon Hendricks a Dizzy Gillespie, da Clark Terry e Dee Dee Bridgewater, passando per la straordinaria stagione televisiva di Renzo Arbore – il musicista pugliese si definisce soprattutto e prima di tutto un “vizioso della musica”, un “eterno innamorato” dell’arte che gli ha “salvato la vita”. E proprio da questa irrinunciabile passione Telesforo, che abbiamo incontrato in occasione della masterclass da lui tenuta a Officina Pasolini,

è partito per raccontarci le tappe fondamentali di questa sua lunga storia d’amore.

 

Sei un artista poliedrico che ha declinato alla perfezione il concetto di multimedialità, ma fondamentalmente sei un jazzista . Hai mai rischiato che le tue tante esperienze lavorative ti distogliessero dalla tua attività principale?

 

No, questo è un rischio che per me non è mai esistito perché ho vissuto tutte le tappe della mia carriera come una continua crescita. Sono nato con la passione per la musica, che è stata il mio sogno, il mio obiettivo fin da ragazzo. E questo anche perché in casa mia la musica era il pane quotidiano, erano tutti dei grandi appassionati della materia. Mio padre, che suonava diversi strumenti, mi ha passato l’amore per il jazz ma mi sono interessato molto presto anche ad altri generi.

Sono cresciuto giocando sugli strumenti e sperimentando. Mi definisco un musicista curioso che nel suo percorso si è ritrovato ad affrontare altre situazioni e altri contesti. Se nel corso della mia carriera mi sono occupato di radio e televisione è stato sempre tenendo bene a mente il mio ruolo e la mia professione. La musica è stata la mia salvezza e il mio vizio. Partendo da questo presupposto quindi è vero che sono un artista “multimediale” ma soprattutto sono un “vizioso” di musica.

 

La passione per la musica dunque ti arriva dalla famiglia, che si intuisce essere stata una prima tappa fondamentale della tua formazione…

 

Esattamente. Ho avuto una formazione casalinga, la mia famiglia mi ha dato un imprinting musicale importante anche da un punto di vista didattico. Mio padre come dicevo mi ha aperto gli orizzonti musicali facendomi ascoltare il jazz, sua grande passione, così come molti altri generi, dalla musica classica alla black music, mia nonna invece che era un’abile pianista e fisarmonicista mi ha impartito le prime lezioni di pianoforte. Subito dopo è arrivato il maestro Nico Garofalo, noto per aver svezzato diverse generazioni di artisti, uno dei suoi allievi più famosi è stato Renzo Arbore; con lui ho studiato a lungo, fino a quando ho voluto tentare un percorso didattico più istituzionale iscrivendomi al conservatorio. È stata una delle poche esperienze che non rifarei: non mi trovavo a mio agio e mi resi conto che non ero adatto a seguire una strada così accademica. La mia famiglia inoltre in quel periodo si accorse che volevo fare il musicista per lavoro e non semplicemente come passatempo e cercò in tutti i modi di dissuadermi, per quanto appassionati di musica infatti i miei sognavano per me una rampantissima carriera da libero professionista. Abbandonai quindi il conservatorio e per tranquillizzare i miei genitori mi iscrissi ad Economia. Ma se di giorno ero uno studente modello, di notte, in giro per Roma, continuavo a frequentare la musica più che assiduamente. E questa mia irrinunciabile passione, questo mio folle vizio segnò velocemente il mio destino, rinunciai infatti alla brillante carriera tanto agognata dalla mia famiglia e mi dedicai anima e corpo alla musica, ritrovandomi, non so nemmeno io come, a fare il musicista per professione.

Per raggiungere questo obiettivo mi sono impegnato molto ma sono stato anche fortunato; impegno e fortuna in questo lavoro vanno a braccetto.

 

Quali sono stati gli artisti che ti hanno influenzato?

 

Ho sempre ascoltato tanta musica, fin da quando ero bambino e ho apprezzato molti artisti vivendo diversi innamoramenti. Tra i miei preferiti ci sono: Charlie Parker, John Coltrane, Duke Ellington e tutti i grandi del Jazz, e poi Cannonbal Adderley e Lee Morgan che per primi hanno fuso l’improvvisazione con il groove, James Brown, Prince, Marvin Gaye.

La cosa bella è che ho potuto conoscere molti degli artisti che ho ammirato, con alcuni di loro ho avuto persino la fortuna di poter suonare. Poco tempo fa in occasione di una masterclass che ho tenuto a Los Angeles, la Recording Academy mi ha invitato a vedere la prima del film realizzato da Don Cheadle su un periodo della vita di Miles Davis. Quando mi sono ritrovato lì, in quella sala immensa, piena di invitati, mi sono reso conto di essere stato uno dei pochi che aveva conosciuto e frequentato veramente Miles Davis. È stata davvero una bella sensazione, anche perché non sono nato a New York, o Los Angeles e non sono nero ma di Foggia!

 

 

Da esperto e appassionato jazzista, cosa ne pensi del revival swing-jazz degli ultimi anni?

 

Credo che nella musica ci siano corsi e ricorsi e una delle cose belle del jazz è proprio che non dimentica il passato. Il passato nella musica jazz non diventa mai catalogo perché non si può prescindere da quello che hanno fatto i grandi maestri: è su quello che hanno fatto loro che si basa la musica contemporanea. Per questo il jazz oltre a non dimenticare il passato vive il presente ed è sempre proiettato nel futuro. È bello, è giusto quindi che in certi momenti i giovani ritornino un po’ alle origini; credo che sia importantissimo che le nuove generazioni apprezzino, conoscano e riescano a metabolizzare, per farle proprie, le tappe fondamentali della storia della musica contemporanea.

 

Il tuo primo picco di popolarità lo hai vissuto con Renzo Arbore in un momento storico in cui si potevano fare ancora radio e tv di qualità. Come hai vissuto quel periodo?

 

È vero mi è capitato di fare televisione e radio in un momento molto fortunato e di incontrare sul mio percorso un grande dello spettacolo italiano, Renzo Arbore. Grazie a lui mi sono ritrovato coinvolto in grandi produzioni, quelle che hanno segnato la storia della tv italiana perché hanno proposto un tipo di intrattenimento di altissima qualità. E questo è stato possibile non solo per merito di Renzo Arbore e il suo team, ma anche perché a guidare la televisione in quegli anni c’erano dei dirigenti che avevano un’indole e una sensibilità artistica molto sviluppate.

Oggi invece vige la legge dei numeri, contano solo quelli e se sono bassi i dirigenti vengono mandati a casa. Sono ascolti “facili”, che si fanno con programmi musicali beceri, scadenti, in cui la musica, quella di scarsa qualità, è solo uno degli ingredienti, perché tutta l’attenzione deve essere focalizzata sulle tette e i culi di turno, o sulle terrificanti arene politiche, inzeppate di loschi figuri che hanno come unico obiettivo quello di scannarsi.

Sono i dirigenti responsabili di questi programmi che dovrebbero andarsene a casa e invece a pagare è quasi sempre chi rischia con idee originali…

 

Parliamo di D.O.C, un programma che per la prima volta vedeva la tv al servizio della musica e non il contrario…

 

Come tutti i programmi di Arbore anche D.O.C., un quotidiano di Raidue andato in onda dal 1987 al 1989, fu una proposta innovativa e sconvolgente, tanto è vero che nell’arco di pochi mesi di trasmissione i dirigenti televisivi di tutto il mondo ci contattarono per conoscerci, per vedere come era fatto il programma di cui tutti gli artisti che ospitavamo parlavano così bene. Da D.O.C. passarono più di seicento musicisti, molti di questi di fama mondiale, da Pat Metheny a James Brown, da Miles Davis a Joe Cocker, dai Manhattan Transfer a Tracy Chapman, che fino ad allora non aveva mai messo piede in uno studio televisivo. Il successo di un programma come questo è dipeso da tutte le persone che ci hanno lavorato, persone che credevano in quello che stavano facendo, dal dirigente rai a noi autori; persino il pubblico era stato accuratamente selezionato. Avevamo scelto dei ragazzi appassionati di musica, dei giovani artisti che volevano fare i musicisti ed effettivamente molti di loro non solo ci sono riusciti ma sono anche diventati dei solidi riferimenti della musica italiana. Tra loro c’erano Ligabue, Max Gazzè, Daniele Silvestri…

 

Da D.O.C. i tempi sono peggiorati ma tu hai continuato a condurre programmi di grande qualità alla scoperta di nuovi talenti, penso a Groove Master, nei primi anni duemila, o al recente Sound Check. Quanto è difficile andare controcorrente?

 

In un paese come l’Italia, dove è diventato tutto difficile, soprattutto essere indipendenti e vivere facendo dell’arte, io mi ritengo abbastanza fortunato, perché continuo a lavorare rappresentando me stesso ma soprattutto quello che mi piace. Chi persevera nei programmi beceri solo per far crescere gli ascolti non ha capito nulla. Non ha realizzato una cosa importantissima: che l’arte genera arte. Un insegnamento fondamentale, che dovrebbe sostituirsi alla legge dei numeri. Le tv e le radio nostrane sono invece portatrici di una maniera vecchia di concepire la musica.

Non ci si rende conto che nei paesi all’avanguardia in fatto di musica le radio sono morte, nessuno le segue più. I ragazzi ascoltano la musica su internet, dove scaricano i podcast e dove tentano di farsi conoscere. Questo è il futuro… invece noi che siamo un paese perennemente in ritardo stiamo aspettando un tracollo generale per poi capire che forse il cambiamento potevamo farlo prima.

 

Anche sul web però la vita non è facile, siamo infatti in un fase storica in cui non c’è ancora una vera e propria regolamentazione…

 

Sì internet ha facilitato alcune cose e ne ha complicate delle altre. Ma bisogna stare al passo con i tempi. Negli anni della “recorded music” siamo passati dal grammofono all’mp3 e ancora non si sa dove andremo a finire, ma c’è una cosa sulla quale tutti noi che ci occupiamo di musica dobbiamo concentrarci, ovvero la musica stessa, al di là dei supporti e dei successi discografici.

Internet quindi deve essere utilizzato esattamente come gli altri mezzi: per diffondere la musica e non un prodotto.

 

Attualmente sei impegnato in un progetto che si chiama Fun Slow Ride, ce lo racconti?

 

Fun Slow Ride significa “passeggiata lenta e divertente”, un po’ come il percorso artistico che ho fatto io e che hanno affrontato molti altri musicisti. La filosofia alla base di questo progetto è proprio quella del lavoro fatto senza avere fretta, con il sorriso sulle labbra, perché divertirsi per chi fa musica – ma in generale questo vale per chiunque svolga un’attività artistica – è fondamentale.

Fun Slow Ride ha avuto una lunga gestazione, quasi tre anni, e tante ore di registrazione in giro per per il mondo. Si tratta di un progetto pensato per i più giovani, per trasmettere loro un modo di concepire la musica che li aiuti ad apprendere e parallelamente ad aprire i propri orizzonti; è stato  portato avanti ed alimentato da un collettivo straordinario di musicisti di varia provenienza. Speriamo che questo serva davvero alle nuove generazioni, che sia utile per comprendere che la musica, quando è fatta bene può farsi veicolo di messaggi importanti.

Intervista di Caterina Taricano

 

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Officina delle Arti Pier Paolo Pasolini è un Laboratorio di Alta Formazione artistica del teatro, della canzone e del multimediale della Regione Lazio attivato a partire dal 2014 attraverso finanziamenti europei e gestito da DiSCo, Ente regionale per il diritto allo studio e la promozione alla conoscenza.

 

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